NATALIA
12 Aprile 2090 – Cincinnati, Ohio.
«Andiamo, muovitiii…»
Ciò
che stavo facendo era di fondamentale importanza. Cascasse il mondo,
dovevo riuscire a inviare il messaggio. In teoria di trattava di
un’operazione semplice, eppure tante cose potevano andare storte. Con la
sfortuna che mi ritrovavo, la connessione online sarebbe saltata prima
che il video fosse caricato completamente o che il contenuto arrivasse a
destinazione. O peggio ancora, potevo essere beccata da un momento
all’altro.
Con
il ginocchio destro che saltellava nervosamente su e giù, aspettavo che
la barra verde che indicava il caricamento dell’allegato terminasse di
riempirsi, mentre pregavo che filasse tutto liscio. Gocce di sudore
colavano lungo il collo, ed era colpa dell’ansia che mi attanagliava se
mi tremavano i denti, non dell’aria gelata che mi soffiava sulla pelle.
Controllai
l’ora. Mi trovavo nell’unica sala computer dell’edificio da soli tre
minuti. Troppo pochi per connettere il tablet olografico alla rete,
scrivere il messaggio con le coordinate, caricare il video che avevo
preparato settimane fa, inviarlo e cancellare le mie tracce. Purtroppo,
questa era l’unica chance che avevo e se non ce la facevo oggi, non
pensavo avrei avuto una seconda possibilità da sfruttare tanto presto.
Solo
quel pomeriggio infatti ero riuscita a recuperare il pass per poter
accedere alla sala server, quello di Johnny McKee, che per puro caso – e
con caso intendevo una confezione di collirio versata nel suo caffè
mattutino – si trovava in infermeria piegato in due per colpa di una
brutta indigestione. Era bastato ispezionare la sua giacca, con la
complicità di Noah ovviamente, per rubare la sua tessera.
Uno scricchiolio diverso dal tipico ronzare dei computer mi fece sobbalzare nella mia stessa pelle. Accidenti.
Ti prego, fa’ che non sia lui.
Grazie
al cielo l’upload dei dati terminò prima che mi venisse un infarto,
così riuscii a spedire l’equivalente digitale di un s.o.s. in bottiglia
nella vastità del web. Eddie era un genio, aveva un sacco di interessi e
mi aveva insegnato un paio di trucchetti base da aspirante hacker che,
chi l’avrebbe mai detto, mi erano tornati utilissimi, permettendomi di
inviare il mio video messaggio ovunque. Qualsiasi cavolo di dispositivo
collegato online lo avrebbe ricevuto.
Una
volta finito, disconnessi il tablet dal computer che stavo utilizzando
senza averne l’autorizzazione, lo ridussi a una barretta della
dimensione di uno snack e lo nascosi nella tasca dei pantaloni.
Cancellai ogni traccia del mio passaggio e un minuto dopo ero fuori
dalla sala – debitamente chiusa a chiave – a passeggiare nel corridoio
per fortuna deserto come se non avessi un solo problema al mondo.
Avrei pure continuato a far finta che fosse la verità, se non fossi incappata in colui che non volevo incontrare.
«Guarda guarda chi abbiamo qui. La piccola Natalia.»
Gavin
Tursten si avvicinò con un sorrisino allegro stampato in faccia. Come
tutti gli abitanti del complesso, indossava una maglietta a maniche
corte e dei pantaloni neri che ne esaltavano il fisico longilineo e
muscoloso, il suo vanto maggiore oltre all’amatissimo ciuffo di capelli
neri tenuto all’insù. Alla cintura portava appese due pistole
semiautomatiche e un manganello elettronico, oggetti che, a differenza
dei vestiti, non tutti possedevamo purtroppo.
«Tursten.»
Lo salutai solo perché dovevo. Feci per oltrepassarlo, ma per mia
sfortuna lui si spostò di lato, bloccandomi il passaggio. Merda.
Mi
sforzai di restare calma. Se avesse scoperto cosa aveva appena
combinato, me l’avrebbe fatta pagare cara, non avevo dubbi. Dietro la
falsa educazione e l’atteggiamento spavaldo di chi sa di essere in cima
alla catena di comando, Gavin Tursten era una iena spietata e crudele.
Se gli lasciavo anche solo intuire che riusciva a intimorirmi (e per
quanto avessi voluto negarlo, ci riusciva eccome), ne avrebbe
approfittato alla grande e io non potevo permettermi di soccombere. La
vita era troppo breve per lasciarsi comandare a bacchetta da un bulletto
troppo cresciuto, e comunque, nel nostro mondo esistevano pericoli
peggiori di lui.
«Ehi, ehi, quanta fretta! Perchè non resti a farmi compagnia?»
«Mi
spiace» risposi con il tono più compassato che mi riusciva di fare.
«Noah mi sta aspettando, devo dargli una mano per l’inventario e sono
già in ritardo.»
«Sempre
dovere e mai piacere, eh. Che peccato» replicò Tursten sembrando
dispiaciuto. Quasi dispiaciuto. Si accostò un altro po’ – il concetto di
spazio privato non esisteva per lui – tanto che la punta del suo naso
arrivò a un soffio dalla mia guancia. Con la coda dell’occhio vidi che
si leccava le labbra e un brivido di paura mi fece irrigidire.
Sapevo
di piacergli. No, piacergli non era la parola giusta: lui mi voleva.
Desiderava possedermi come si possiede un oggetto, come l’ennesimo
simbolo di uno status quo all’interno della nostra piccola comunità che
solo per lui contava veramente qualcosa. Gavin era consapevole di non
potermi avere, non nello stesso modo in cui aveva avuto Pam e le altre
che erano passate nel suo letto, più o meno volontariamente, e ciò lo
infastidiva parecchio. Ma finché lui e tutti gli altri pensavano che
stessi con Noah, che reggeva il gioco per proteggermi, sarebbe andato
tutto bene. Almeno speravo.
E
se quel cavolo di messaggio fosse arrivato dove doveva arrivare, ero
sicura che non saremmo rimasti in questa claustrofobica prigione ancora a
lungo, così non avrei più dovuto preoccuparmi di Gavin e delle sue
occhiate viscide.
«Magari
la prossima volta, che ne dici?» continuò lui, data la mia mancanza di
reazioni. «Non riusciamo mai a passare un po’ di tempo soli io e te…»
Neanche
morta. Preferivo mille volte andare a cena con un mutante, piuttosto
che trascorrere di mia spontanea volontà del tempo con Gavin.
Non
diedi una vera risposta alla sua proposta. «Devo andare.» I suoi occhi
neri, che avrebbero potuto essere belli se non fosse stato per quella
scintilla di crudeltà a malapena celata, mi percorsero avidi e
indecenti, soffermandosi con insistenza sul mio seno. «Noah mi aspetta»
ripetei, respirando piano, nel timore che potesse notare il cordoncino
che portavo al collo al momento nascosto sotto la camicia.
«Quello
stupido secchione» commentò Gavin con un mezzo ghigno cattivo. «Prima o
poi ti deciderai a stare con un vero uomo. E ti piacerà così tanto che
non potrai farne più a meno.»
Repressi
un conato di vomito. «Stai insinuando che Noah non lo è?» replicai,
sbagliando. Accidentaccio a me, perché gli stavo dando corda?
La
mia reazione sembrò divertirlo. «Piccola», mormorò mentre con l’indice
spostava una ciocca dei miei capelli sfuggita all’elastico, «sappiamo
tutt’e due che non è un vero uomo uno a cui piace succhiare il cazzo.»
Odiavo che mi chiamasse piccola, che fosse un omofobo di merda e uno stronzo arrogante. Ma più di tutto, odiavo che mi toccasse.
E pareva che Gavin sapesse che lo detestavo, ma evidentemente non gliene importava un cazzo.
«Quando
sarai pronta per farti scopare come si deve, bussa alla mia porta.» Mi
fece l’occhiolino e, senza aspettare una risposta, si mise da parte per
lasciarmi passare.
Finalmente potei tornare a respirare. Purtroppo non andai molto lontano che Tursten mi fermò di nuovo.
«Natalia?»
Mi voltai a guardarlo, restando in silenzio. Cos’altro voleva ancora?
«Per
quanto mi piaccia vedere il tuo bel culetto, non voglio più beccarti a
gironzolare in quest’ala. È un’area riservata, e lo sai benissimo.
Potrei non essere gentile, la prossima volta.» Passò con lentezza il
palmo sulla cintura, a ricordarmi che solo uno tra noi due era armato e
privo di scrupoli. «Mi hai capito bene, piccola?»
Annuii
una sola volta. Feci un passo indietro, poi un altro e infine mi voltai
per andarmene. Il peso del suo sguardo dietro la schiena indugiò anche
quando ormai ero più che certa che Gavin non mi stesse guardando.
Camminai
piano fino a quando non fui fuori dall’area server, poi salii spedita
al piano dove si trovavano le camere. Sarei dovuta passare prima in
infermeria da Noah, per rimettere a posto il tesserino di McKee, ma
dovevo ricompormi e potevo farlo solo una volta chiusa a chiave nella
sicurezza della nostra stanza.
Ora
che non c’era più l’adrenalina a sostenermi, crollai. La calma che
avevo indossato come una maschera si lacerò di netto, la tensione di
quella situazione impossibile esplose e io caddi sul pavimento rivestito
da una moquette spessa e scura. Mi stesi di schiena, con un palmo
aperto sul petto. Cominciai ad ansimare forte intanto che copiose
lacrime mi offuscavano la vista, prima di colare giù verso le tempie,
bagnandomi i capelli.
Inviando
quel messaggio d’aiuto avevo disobbedito agli ordini diretti di
Tursten, e non dubitavo neanche per un istante che l’avermi beccata dove
non dovevo essere l’avesse insospettito. Ma d’altronde, pur sapendo che
rischiavo grosso, l’avrei fatto di nuovo. Ancora e ancora.
Non dovevo temere Gavin, ricordai a me stessa mentre incameravo grandi boccate d’ossigeno, e sì che avevo paura di tante cose.
Avevo paura dei mostri là fuori che avevano spazzato via la civiltà umana.
Avevo paura di stare male. Avevo paura di non riuscire più a respirare normalmente.
Ma
più di tutto, avevo paura di morire come un topo chiuso in gabbia senza
che potessi fare nulla per salvarmi, circondata da persone che
disprezzavano me e la mia famiglia.
Grazie mille, Elsa! <3 <3 <3
RispondiEliminaÈ sempre un piacere! :) <3
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